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Nascere, cosa comunica il neonato?

La prima modalità con cui il bambino si affaccia al mondo coincide con il primo vagito, il suo primo pianto che spesso genera sollievo nella madre: è vivo, piange, è andato tutto bene.

Il pianto del bambino alla nascita è però, a livello fisiologico, un pianto di dolore: l’aria che il bambino respira appena dopo il parto è per lui una sensazione nuova e fastidiosa in quanto va ad asciugare le tenere mucose della bocca e che apre poi i polmoni. Quello che il neonato prova è dunque una sensazione di spiacevole dolore e bruciore che manifesta piangendo e che si placa con il primo abbraccio della mamma.

Sigmund Freud, padre della psicoanalisi, fa coincidere il termine “pianto” con quello di “urlo”, intendendolo come la prima modalità con cui il neonato dice e dà qualcosa di sé: è come se, attraverso il suo urlo, il bambino volesse dire “perché mai mi avete strappato dal grembo materno in cui stavo così bene?”.

Con l’uscita dal grembo materno, il neonato lascia tale condizione “autistica” e incontra violentemente la realtà esterna alla quale si deve adattare. Tale cambiamento necessita l’apporto di una figura esterna per soddisfare i suoi bisogni e, più generale le sue esigenze vitali, che certo non si esauriscono nel semplice appagamento istintuale.

L’angoscia, la paura e il pianto sovente si placano nel momento in cui appare la madre che rassicura, con la sua presenza, le inquietudini del piccolo. Se ci pensiamo, è proprio questo ciò che accade nelle sale parto: il pianto del bambino si trasforma in quiete nel momento in cui c’è una madre, la sua mamma, che lo culla, che lo abbraccia e che diventa luce nel buio.

L’infans (così Donald Winnicott, pediatra e psicoanalista inglese, definisce il neonato) è letteralmente “colui che non parla”, potremmo aggiungere che al posto della parola, l’infante, usa il pianto, il suo primo urlo, per dire.

E cosa vuole dire il bambino con il suo pianto? Secondo quanto detto finora, il neonato sembrerebbe proprio dire: “Cerco qualcosa di caldo, di rassicurante, di speciale che mi possa abbracciare”…ed ecco che arrivano le braccia della mamma!

Ed è proprio questo che, in una delle sue celebri affermazioni, sosteneva Winnicott quando scriveva che il lattante non esiste da solo, esiste invece con qualcun altro che lo faccia sentire parte di una relazione e che lo faccia quindi vivere, o meglio esistere come soggetto. Il bambino piccolo non può sopravvivere isolato quando viene al mondo, può esistere solo se relazionato ad un altro capace e disponibile ad accoglierlo, a proteggerlo e a dare una risposta al suo primo grido.

Spesso questo “altro” è la donna che, nell’incontro con il figlio, può dare origine all’esperienza del suo essere madre; accogliendolo finalmente tra le sue braccia, dopo averlo accolto nella sua mente e nel suo cuore per i nove mesi della gravidanza.

Il momento del primo abbraccio, così intimo e privato, non ha quindi bisogno di parole: si basa sull’empatia, su quella reciprocità di sguardi, di curiosità e di meraviglia che favorisce ed è alla base del primo incontro.

Nessuna madre è simile a un’altra poiché in quella madre c’è la donna che la madre è, con la sua storia, le sue fantasie e le sue attese. Potremmo anche dire che tutti i neonati sono diversi, ognuno vive la propria venuta al mondo in una modalità propria, singolare: è, quello tra neo-mamma e neo-nato, l’incontro tra due originalità che, lentamente, devono scoprirsi e conoscersi.

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